È scontato arrivare a Napoli, contare i sacchi di spazzatura sparsi attorno alla stazione, ascoltare i consigli da zona di guerra del tassista, persino chiosare il commento di una splendida autoctona sulla «città che puzza».
È meno scontato arrivare a Napoli e trovare un assessore regionale, diessino per giunta, preso a male parole dentro l’oasi blindata di una libreria Feltrinelli, dove la gente si mette in fila alla cassa e si siede compita ad ascoltare presentazioni.
Eppure questo è successo al «più bassoliniano degli assessori regionali», Andrea Cozzolino.
Ed è ancora meno scontato che ciò accada al dibattito su un libro, e che questo libro impietoso e illuminante, L’altra metà della storia (Guida editore) sia opera di Marco Demarco, direttore del Corriere del Mezzogiorno, già vicedirettore dell’Unità e punto di raccordo di quella parte sempre più cospicua di borghesia progressista napoletana, intellettuale e delle professioni, che non tollera più Antonio Bassolino. O sarebbe meglio dire il bassolinismo, una meccanica della politica che ha fondato «un inedito sistema di potere, forse il più vasto e radicato che mai sia stato realizzato nell’ambito della città» e che quattordici anni dopo la sua inaugurazione si ritrova la spazzatura a metafora del vivere civile.
Aurelio Musi ha accusato il libro di un «eccesso di revisionismo» e si capisce perché: riletto in chiave storica, il saggio di Demarco si rivolge a una sinistra che non ha mai capito troppo bene Napoli, oscillando dall’assuefazione alle degenerazioni della napoletanità all’utopismo della «teoria del salto», quella forma di meridionalismo che promette il balzo improvviso dall’oscuro passato democristiano a un non ben specificato futuro radioso.
Bassolino, dunque, è l’ultimo anello di una catena che parte, con l’aiuto di intellettuali e registi cinematografici come il Francesco Rosi de Le mani sulla città, con la fabbricazione di falsi miti: la partecipazione comunista alle «Quattro (invero tre) giornate di Napoli» del 1943, la sinistra unico baluardo contro la speculazione edilizia, il laurismo - giudicato al contrario «l’unico momento alto della destra napoletana al potere» - fonte di tutti i mali insieme a Gava e Cirino Pomicino, sino all’emergenza camorra che magicamente scompare dall’agenda pubblica nel 1993, quando Bassolino diventa sindaco di Napoli dichiarando guerra ai qualchecosisti e ai nonsipuotisti. Ecco, di quelle giornate radiose, sostiene Demarco, resta solo il ricordo di una promessa non mantenuta e la foto accecante della Napoli di oggi con i cadaveri appoggiati su pizze margherite e l’amara constatazione che «con la diversità berlingueriana non si è risolto il problema del traffico, o quello della camorra, o quello della spesa pubblica».
Certo, Bassolino ha portato gli artisti nel metrò, ha fatto il museo d’arte contemporanea, ha promesso il Rinascimento, s’è circondato di intellettuali compiacenti e di una società civile anestetizzata, ma questo veltroniano «salto nell’effimero», questo ossessionato concentrarsi «sulla comunicazione pubblica e sulla personalizzazione istituzionale» lo racconta meglio la pietanza della Coppa America annusata a Posillipo e consumata a Valencia. Capitolo dopo capitolo, Demarco porta alla sua tesi fatti e cifre.
Si doveva fare il megaparco a Bagnoli sulle ceneri d’acciaio dell’Italsider? Nulla s’è mosso.
Certo, Bassolino ha portato gli artisti nel metrò, ha fatto il museo d’arte contemporanea, ha promesso il Rinascimento, s’è circondato di intellettuali compiacenti e di una società civile anestetizzata, ma questo veltroniano «salto nell’effimero», questo ossessionato concentrarsi «sulla comunicazione pubblica e sulla personalizzazione istituzionale» lo racconta meglio la pietanza della Coppa America annusata a Posillipo e consumata a Valencia. Capitolo dopo capitolo, Demarco porta alla sua tesi fatti e cifre.
Si doveva fare il megaparco a Bagnoli sulle ceneri d’acciaio dell’Italsider? Nulla s’è mosso.
Si doveva snellire la pubblica amministrazione? Le spese correnti sono moltiplicate: anzi, il «grande collocatore» col suo partito personale ha riproposto il partito della spesa pubblica ingrassando le società miste con «eserciti di consulenti».
Si doveva internazionalizzare? La Campania attrae lo 0.45% degli investimenti esteri in Europa. Si doveva risolvere l’emergenza rifiuti, che è una finta emergenza visto che dura da trent’anni? Resta altro, restano le gare d’appalto gestite in modo improprio, le accuse al Bassolino commissario per i rifiuti sulle ecoballe che non sono eco e che non vengono bruciate ma stoccate in aree dove prosperano le speculazioni sulla vendita dei terreni, resta pure lo scandalo buttato in televisione di 2400 lavoratori socialmente utili assunti a tempo indeterminato per la raccolta differenziata e occupati, sì, ma a far nulla.
Così, in una memorabile autodifesa, ’o governatore s’è difeso sostenendo di non aver mai letto i contratti di concessione. Resta che quella sinistra che quindici anni fa scendeva in piazza contro le ecomafie porta in dote ai posteri «una regione in cui è concentrato il 43% di tutti i siti inquinanti d’Italia».
Morale della storia: «Sta di fatto che un potere crescente, carismatico, istituzionale e commissariale, non ha prodotto gli effetti sperati.
Morale della storia: «Sta di fatto che un potere crescente, carismatico, istituzionale e commissariale, non ha prodotto gli effetti sperati.
Sette miliardi e settecento milioni di euro in fondi europei, un miliardo per l’emergenza rifiuti, oltre sei miliardi spesi per la sanità».
Cifre enormi, da capogiro contabile. E invece «nonostante le molte risorse ricevute o anticipatamente impegnate» Bassolino ha fallito nel «portare Napoli e la Campania fuori da un’orbita neo-assistenziale». Di più. Rispetto al 1993, sul cumulo sozzo delle crisi se n’è aggiunta un’altra, la «reciproca delegittimazione del centro e della periferia dello Stato», nel sonno incosciente della società civile. Frutto acidulo di un potere irremovibile, invincibile, saldato tutt'uno con il cemento dei palazzi della politica.
(Angelo Mellone "Il Giornale")
8 commenti:
A Bs non passa il documento della maggioranza nazionale sull’accordo con il Governo
PENSIONI, LA CGIL SI SPACCA
Bocciata anche la proposta di Fenaroli di una consultazione unitaria con CISL-UIL
L’accordo tra governo e sindacati su previdenza, lavoro e competitività è stato bocciato ieri dall’assemblea dei delegati bresciani della Cgil. Dopo una mattina di discussione, aperta ieri nella sala della Camera di commercio dal segretario della Camera del Lavoro, Marco Fenaroli, quando si è giunti alla conta, il documento alternativo, presentato da Fausto Feltrami, che chiede di bocciare l’intero accordo, ha totalizzato 161 voti. Al documento presentato da Marco Fenaroli, critico su alcuni punti, ma nella sostanza favorevole ad un accoglimento dell’intesa, sono andati 138 voti. L’area sindacale che si riferisce alla Rete 28 Aprile ha dunque segnato un punto importante a suo favore, schierando ancora una volta la Cgil breciana sul fronte del no nazionale. L’annuncio della bufera era venuto in mattinata da alcuni delegati e, soprattutto da Laura Tonoli, segretaria dei tessili, la quale aveva parlato di “accordo pessimo”, fatto “a fabbriche chiuse, senza aver mai misurato i rapporti di forza”, di esigenza di “uno sciopero generale”, di sostanziale “adesione al Patto per l’Italia”, di “snaturamento della Cgil” e di “necessità di riaprire la trattativa”.
La chiamata a raccolta dei no è poi stata fatta, con un intervento appassionato, da Fausto Feltrami, il quale ha attaccato la Cisl, accusandola di aver “deciso di rifiutare il confronto” in un’assemblea, quella di ieri, che avrebbe dovuto essere unitaria. “La Cisl – ha detto Feltrami- privilegia modalità organizzative che hanno qualcosa di autoritario”. Secondo Feltrami, che è membro della segreteria confederale, dopo una trattativa “ipercentralista” e dopo aver registrato che “i vincitori del confronto sono Padoa Schioppa”, definito sprezzante il “banchiere del Governo” e Montezemolo, la Cgil “ha bisogno di una discussione di tipo congressuale”. Dunque, fuoco incrociato sul quartier generale, sulla Cisl e sul Governo, che dall’assemblea dei delegati della Cgil esce non certamente come una coalizione amica.
Il confronto di ieri mattina ha messo allo scoperto anche differenze politiche che agitano la balena rossa, alla vigilia della nascita del PD. Feltrami nel suo intervento ha fatto presenti le pressioni di alcune aree di governo, che avrebbero condotto ai risultati conosciuti. A rispondergli a muso duro è stato Giovanni filippini, il quale ha detto “sono fantasie quelle avanzate da chi ritiene che il nascente Partito Democratico tenti di normalizzare la Cgil”. “ Restringiamo – ha proseguito G. Filippini- frequenti invasioni di campo di Rifondazione comunista e dei Comunisti italiani, che con presunzione indicano al sindacato cosa deve fare. Vi rispondo – ha detto concludendo Filippini a chi critica il Partito Democratico – come Totò: ma fatemi il piacere”.
A Susanna Camuso, venuta da Milano per ascoltare la base, non è restato che tornarsene nella sede meneghina della Cgil con un no nel sacco.
Pragmatico, interlocutorio, prudente, Marco Fenaroli aveva dato il via ai lavori muovendosi sul terreno minato dell’accordo con circospezione, valorizzando le posizioni raggiunte e piantando bandierine rosse sui punti negativi. Puntuale nei conti, scevro da qualsiasi tentazione demagogica, convinto che il primo compito del segretario della Camera del Lavoro sia quello di “dare ragione ai lavoratori”, Fenaroli esce dal confronto senza scontare una sconfitta personale, ma registrando che il voto bresciano è caduto nella Rete 28 Aprile, che in un volantino distribuito all’ingresso dice “ Solo il no all’accordo permetterà di conquistare e difendere i diritti che ci spettano”.
Fenaroli in esordio, aveva sottolineato i lati positivi dell’intesa romana, a cominciare dagli aumenti alle pensioni minime, dal raggiungimento di parametri migliori per le future pensioni dei giovani, da migliori condizioni per le giovani generazioni. Il segretario non aveva mancato di evidenziare i “punti dolenti”, definendo in sintesi, la parte sugli scalini “un pasticcio illeggibile socialmente”. Le sue argomentazioni e quelle di altri delegati e segretari di categoria che lo hanno seguito non hanno spostato di una virgola gli equilibri. E così l’accordo, da alcuni definito “pessimo”, da altri “deludente”, da altri “blindato” e da altri ancora “umiliante” è stato respinto.
La bocciatura è quella che è e rimane, come una pietra pesante sul futuro cammino della Cgil bresciana e sui suoi rapporti con Cisl e Uil. Marco Fenaroli aveva proposto di andare ad una consultazione unitaria, senza nascondere pregi e difetti dell’intesa, ma senza pregiudizi. Ieri ha vinto il fronte del no e a settembre tutto sarà più complicato, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con le altre confederazioni.
INTERVENTO DI LUCIANO GALLINO SU LA REPUBBLICA DEL 5 LUGLIO 2007
LETTERA APERTA ALL'INPS SULLE PENSIONI ITALIANE
Signori Presidenti del Consiglio d´Amministrazione e del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell´Inps, abbiamo bisogno di lumi.
Siamo un gruppo di persone i cui figli e nipoti sono preoccupati perché temono che a suo tempo non avranno più una pensione, o almeno una pensione decente. Alla base delle loro preoccupazioni v´è un´idea fissa: che il bilancio dell´Inps sia un disastro, o ci sia vicino. L´hanno interiorizzata sentendo quanto affermano ogni giorno politici, economisti ed esperti di previdenza, associazioni imprenditoriali, esponenti della Commissione europea. Non tutti costoro, è vero, menzionano esplicitamente l´Inps. Ma tutti sostengono che le uscite dovute al pagamento delle pensioni risultano talmente superiori alle entrate da rappresentare una minaccia devastante per i conti dello Stato. Che tale deficit peggiorerà di sicuro nei decenni a venire, poiché pensionati sempre più vecchi riscuotono la pensione più a lungo, mentre diminuisce il numero di lavoratori attivi che pagano i contributi. Che allo scopo di ridurre il monte delle pensioni erogate in futuro bisogna allungare al più presto l´età pensionabile e abbassare i coefficienti che trasformano il salario in pensione. Dal complesso di tali affermazioni pare evidente che chi parla ha in mente anzitutto l´istituto che eroga quasi il 75 per cento, in valore, di tutte le pensioni italiane. Cioè l´Inps. E il suo bilancio.
Pressati dai nostri giovani - quasi tutti lavoratori dipendenti o prossimi a diventarlo – che ci domandano dove stia l´insostenibile pesantezza del deficit della previdenza pubblica che minaccia il loro futuro, abbiamo passato qualche sera, in gruppo, a scorrere il bilancio preventivo 2007 dell´Inps. Tomo I, pagine 933. E ora abbiamo un problema. Perché non siamo riusciti a comprendere da dove provenga la necessità categorica di elevare subito l´età pensionabile, e di abbassare l´entità delle future pensioni, pena il crollo della solidarietà tra le generazioni e altre catastrofi.
Quel poco che noi, genitori e nonni inesperti, crediamo d´aver capito lo possiamo riassumere così:
a) Lo Stato trasferirà dal proprio bilancio a quello dell´Inps, nel 2007, 72,3 miliardi di euro. Cifra enorme. Quasi 5 punti di Pil. Vista questa cifra (a pag. 90), ci siamo detti: ecco dove sta la voragine che minaccia di ingoiare le pensioni dei nostri figli e nipoti. Poi qualcuno ha notato che il titolo della pagina riguarda non il pagamento delle ordinarie pensioni, bensì gli oneri non previdenziali. I quali ammonteranno a 74,2 miliardi in tutto, coperti dallo Stato per la cifra che s´è detto e per 1,9 miliardi da altre entrate. Gli oneri non previdenziali sono per quasi la metà uscite che, per definizione, non presuppongono nessuna entrata in forma di contributi. Si tratta di interventi per il mantenimento del salario (2,5 miliardi); oneri a sostegno della famiglia (2,7 miliardi); assegni e indennità agli invalidi civili (13,5 miliardi); sgravi dagli oneri sociali e altre agevolazioni (12,7 miliardi). Sono tutti oneri sacrosanti, che lo Stato ha il dovere di sostenere. Ha quindi chiesto all´Inps di gestirli, cosa che dal 1988 l´Istituto fa con una cassa separata, la Gestione degli interventi assistenziali (Gias). Però chi prende il totale di questi oneri per sostenere che la normale previdenza costa ai contribuenti oltre 70 miliardi l´anno, per cui è necessario tagliare qui e ora le pensioni ordinarie, forse ha esaminato un po´ troppo alla svelta i bilanci dell´Inps. O, nel caso del Bilancio preventivo 2007, si è fermato a pag. 89.
b) Poiché quasi tutti i nostri giovani sono o saranno lavoratori dipendenti, siamo andati a cercare nel Bilancio quale rapporto esista tra le entrate del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (Fpld) in forma di contributi, e le uscite in forma di pensioni.
Anche qui, sulle prime, credevamo d´aver letto male. Il Fpld in senso stretto avrà un avanzo di esercizio, nel 2007, di quasi 3,5 miliardi (pag. 219). In altre parole i contributi che entrano superano di 3,5 miliardi le pensioni che escono. Ma poiché ad esso sono stati accollati, con gli anni, degli ex Fondi che generano rilevanti disavanzi (trasporti, elettrici, telefonici, più l´Inpdai, l´ex Fondo dirigenti di azienda che quest´anno sarà in rosso per 2,8 miliardi) il Fpld farà segnare un passivo di 2,9 miliardi di euro.
Il bilancio Inps definisce appropriatamente "singolare" il caso del Fpld (pag. 162). In effetti esso appare ancor più singolare ove si consideri che il passivo degli ex Fondi, per un totale di 6,3 miliardi, è generato da poche centinaia di migliaia di pensioni. Per contro le pensioni del Fpld sono 9 milioni e 600.000, ben il 96 per cento del totale. Tuttavia sono proprio anzitutto queste ultime di cui la riforma delle pensioni vorrebbe ridurre l´entità, in base all´assunto che i lavoratori attivi non ce la fanno più ad alimentare un monte contributi sufficiente a pagare le pensioni di oggi e di domani.
Vi sono in verità altri temi, connessi al bilancio Inps, che nel nostro gruppo inter-generazionale di discussione han fatto emergere dei dubbi.
Ad esempio: le pensioni di domani, indicano i grafici su cui siamo capitati, sarebbero a rischio perché senza interventi drastici sul monte pensioni esse arriveranno verso il 2040 a superare il 16 per cento del Pil, in tal modo generando un onere intollerabile per il bilancio dello Stato.
Però a noi risulta che il totale delle pensioni pubbliche, erogate dall´Inps e da altri enti, al netto delle gestioni o spese assistenziali in senso stretto (le citate Gias) rappresentavano nel 2005, ultimo anno per cui si hanno dati consolidati, l´11,7 per cento del Pil. Le Gias valevano da sole oltre 2 punti di Pil, pari a 30,1 miliardi. Le gestioni previdenziali dell´Inps incideranno sul Pil del 2007 per il 9,7 per cento, ma se si escludono il Fondo Ferrovie e l´ex Inpdai arriveranno appena al 7,4 per cento (pag. 61).
A noi sembra quindi che chi disegna o brandisce scenari catastrofici per il 2040 (il 2040!) lasci fuori dal disegno un po´ tanti elementi. Tra di essi: il peso economico delle gestioni assistenziali (di cui una legge del 1988, la n. 67, dava già per scontata la separazione dalla previdenza); il fatto che i contribuenti, quelli che pagano i contributi, non stanno affatto diminuendo, bensì aumentano regolarmente da diversi anni (più 121.000 nel solo 2007: pag. 45); il peso rilevante dei deficit che non riguardano il Fondo dei lavoratori dipendenti in senso stretto; il fatto, ancora, che prendere come un assioma il rapporto pensioni/Pil significa voler misurare qualcosa con un elastico, visto che il rapporto stesso può cambiare di molto a seconda che il Pil vada bene o vada male. Com´è avvenuto tra il 2001 e il 2005.
Riassumendo: delle due l´una. O noi inesperti dei bilanci Inps abbiamo capito ben poco, e i nostri figli e nipoti han ragione di temere per le loro future pensioni ove non si decida subito di tagliarne il futuro ammontare. Se questo è il caso, restiamo in trepida attesa delle Loro precisazioni.
Oppure dobbiamo concludere che quando, nelle più diverse sedi, si dipinge di nero il futuro pensionistico dei nostri giovani, si finisce per utilizzare i dati Inps, come dire, con una certa disinvoltura.
Su questo, naturalmente, non ci permettiamo di chiedere un parere all´Inps
Brescia: il documento approvato all'assemblea dei delegati cgil...
Inviato da : Admin Venerdì, 27 Luglio 2007 - 18:24
Si è svolta oggi 27 luglio l'Assemblea Territoriale dei delegati e dei pensionati della Cgil bresciana per esaminare l'esito della trattativa sulla previdenza, il mercato del lavoro e la cosiddetta competitività. La relazione introduttiva è stata tenuta dal neoeletto segretario generale della Camera del Lavoro Marco Fenaroli e l'intervento conclusivo da Susanna Camusso, segretaria generale lombarda. Sono intervenuti 19 tra dirigenti sindacali e delegati dando vita ad un impegnativo dibattito che è entrato nel merito di tutti i punti dell'intesa.
A conclusione dell'Assemblea sono stati messi in votazione 2 documenti alternativi.
Uno presentato dal nuovo segretario generale Marco Fenaroli, l'altro dal segretario Cgil di Brescia Fausto Beltrami, unitamente ad una quarantina tra delegati e dirigenti sindacali territoriali.
L'assemblea ha approvato il documento presentato da Fausto Beltrami con 161 voti e ha respinto il documento presentato da Marco Fenaroli che con 138 voti, mentre 9 sono stati gli astenuti. Anche il documento del segretario generale contiene alcuni rilievi critici di merito. La differenza fondamentale tra i due documenti sta nel giudizio politico sull'intesa. Mentre il documento di Fenaroli non lo esprime, il documento di Beltrami esprime un giudizio complessivamente negativo, afferma che l'intesa non è accettabile e che occorre riaprire la trattativa e pone l'esigenza di riprendere al più presto i rapporto con i lavoratori, a partire da un referendum vincolante.
DOCUMENTO CONCLUSIVO ATTIVO DEI DELEGATI BRESCIA 27.07.2007
Il documento unitario Cgil Cisl Uil – che ha avuto il limite di non essere una piattaforma adeguatamente sostenuta dalla consultazione democratica dei lavoratori e dei pensionati - poneva comunque grandi questioni che avevano al centro la valorizzazione del lavoro, dello Stato sociale e di uno sviluppo economico più qualificato.
A Brescia le assemblee dei lavoratori, gli scioperi di numerose fabbriche metalmeccaniche e dell'industria, lo sciopero proclamato da Cgil, Cisl e Uil, avevano sottolineato l'importanza di alcuni elementi, quali il pensionamento immediato dopo i 40 anni contributivi ed un trattamento pensionistico adeguato per i più giovani.
E' mancato però a livello nazionale il pieno coinvolgimento e la necessaria mobilitazione delle lavoratrici e dei lavoratori. È questa la principale anomalia di una trattativa che ha registrato la subalternità del sindacato rispetto al Governo ed ai centri di potere economico e finanziario che hanno costantemente vincolato ogni accordo a ristrette compatibilità di spesa.
Alcuni parziali risultati sono stati ottenuti. È questo il caso dei capitoli che riguardano la difesa del potere di acquisto delle pensioni basse ed i miglioramenti, compresi quelli previdenziali, dei trattamenti di disoccupazione e della contribuzione figurativa e di riscatto. Questi ultimi però sono ben lontani dal compensare il risultato molto negativo che si ottiene in materia di lotta alla precarietà: si consolida l’impianto della legge 30, non si affronta il problema delle causali e del tetto del tempo determinato, lo staff leasing viene in realtà mantenuto. Non viene intaccata la piaga dei cocopro, salvo farne un salvadanaio per gli interventi previdenziali.
La decisione del Governo di abrogare la sovracontribuzione degli straordinari è gravissima e abbinata alla detassazione dei premi di risultato dà un'idea misera e del tutto non condivisibile di quello che si intende per competitività.
Non si risolvono i problemi dei precari, non si affrontano quelli degli immigrati, non si punta sulla qualità del lavoro, con conseguenze negative anche sulle stesse entrate strutturali della previdenza.
La Maroni non viene abolita, mentre ne viene diluito nel tempo l’effetto, attraverso un meccanismo di scalini impropriamente chiamati quote, perchè l’elemento di rigidità è rappresentato dall’innalzamento obbligatorio dell’età anagrafica, senza elementi di flessibilità.
Questo accordo si inserisce in quella filosofia degli anni ’90 che aumenta il tempo di lavoro nella vita e non da risposte adeguate a chi ha iniziato a lavorare in età precoce. Tutto ciò risulta in profonda contraddizione con il fatto che il Fondo lavoratori dipendenti è da tempo in attivo, e che i lavoratori hanno contribuito ulteriormente con l’incremento dello 0,30% della loro contribuzione, senza che tali ingenti somme siano state utilizzate a fini previdenziali. Anzi, si pensa già ad uno 0,09% in più a fronte di improbabili ed indimostrati risparmi nella gestione degli enti previdenziali.
L’intervento sui coefficienti, legati al percorso lavorativo, e la possibilità di giungere alla copertura del 60% da parte della previdenza pubblica, indicati nell’accordo, sarebbero positivi ma rischiano di essere aleatori e non effettivamente realizzabili perché pesantemente condizionati dal vincolo dell’equilibrio finanziario.
Su tale aspetto decisivo la Cgil deve assumere l’obiettivo della loro effettiva esigibilità.
La mancata separazione fra assistenza e previdenza, peraltro prevista nella stessa riforma Dini del ’95, è stata rimossa, ma rimane dirimente per la stessa tenuta del sistema previdenziale pubblico e per le pensioni future di quelle nuove generazioni invocate in modo del tutto strumentale da più parti.
La reintroduzione delle 4 finestre per i lavoratori con oltre 40 anni di contributi viene realizzata con uno scambio inaccettabile con l’introduzione delle finestre per le pensioni di vecchiaia.
Per quanto attiene i lavori usuranti, di cui si è ottenuta l’estensione, la loro elencazione rischia di escludere tipologie lavorative particolarmente faticose e pesanti. Inoltre i vincoli finanziari determinano di fatto il contenimento della platea degli aventi diritto.
Per tutti questi motivi il nostro giudizio su una intesa che ha al centro più la dimensione delle compatibilità economica che quella sociale, pur non scordando i parziali aspetti positivi menzionati, è complessivamente negativo.
A fronte di una intesa non accettabile esprimiamo tutto il nostro scetticismo che si possa risolvere il problema con una lettera del segretario generale della Cgil al presidente del consiglio. Occorre riaprire la trattativa sui temi del mercato del lavoro e della previdenza, sostenerla con la partecipazione e la mobilitazione dei lavoratori, con l'obiettivo di superare tutti i punti negativi dell'intesa.
Sarà in ogni caso fondamentale riprendere al più presto uno stretto rapporto con i tutti i lavoratori e le lavoratrici, compresi i precari ed i collaboratori, i pensionati e i giovani, a partire da un referendum vincolante da tenersi a settembre.
Brescia 27 luglio 2007
Gli affitti al comune non si pagano. È una regola non scritta, ma a Napoli sembra valere per tutti: quasi i due terzi degli inquilini non rispettano il contratto e non lo fanno neppure le istituzioni. Così i crediti insoluti viaggiano intorno a 81 milioni di euro e l'amministrazione guidata da Rosa Russo Iervolino accumula cause su cause davanti ai giudici senza riuscire a sfrattare nessun abusivo. Mentre sullo sfondo resta una fila di edifici inutilizzati e in crescente degrado, a causa delle attività di manutenzione ordinaria che seguono i ritmi della burocrazia.
E' quanto emerge dall'impietosa istantanea scattata dalla sezione regionale di controllo della Corte dei conti in una recente indagine sulla gestione del patrimonio immobiliare. Dal 1991 al 2003 i contenziosi avviati dal comune sono quasi 7.400 e nella quasi totalità dei casi si tratta di sfratti per morosità (circa 2.400 le azioni in corso). Ma questo lavoro non sta dando grossi risultati. I magistrati contabili segnalano che «la percentuale dei crediti recuperati coattivamente mediante azione legale non supera, mediamente, la metà del totale degli importi intimati». E non si tratta di quattro soldi.
Il valore degli affitti non pagati al comune nell'arco di dodici anni è di ben 80 milioni e 900 mila euro. Gli utenti sono 31.304 e di questi 18.806. il 60,1 per cento, non sono in regola (dati 2003). Nel dettaglio, le maggiori irregolarità riguardano importi non versati inferiori a 100 euro o superiori ai 5 mila. Nel primo caso si tratta di un fenomeno normale. Ma per spiegare il mancato pagamento di cifre più elevate, la Corte punta il dito contro l'atteggiamento dell' amministrazione «eccessivamente indulgente e poco incisivo», oltre che «poco propenso ad attivare sistematiche azioni di sfratto per morosità». Una soluzione, però, va trovata in fretta. Anche perché a non rispettare i pagamenti non sono solo famiglie indigenti.
Circa 6.1 milioni di euro sono dovuti da istituzioni pubbliche. Come il ministero degli Interni - che ha caserme, commissariati o sedi di prefettura in edifici comunali - o come Asl e scuole. Tra gli inquilini, poi, solo il 17 per cento dei crediti è da imputare alla fascia A, cioè ai redditi più bassi. Del 49 per cento dei soldi dovuti e non versati è responsabile la fascia C4, che rappresenta, però, solo il 10,3 per cento dei rapporti di utenza. In questa categoria è compreso chi guadagna molto e chi non ha presentato i documenti sul proprio reddito, tra i quali, secondo i magistrati, molti abusivi (dati 2002).
Quello delle occupazioni illegali di appartamenti comunali è un fenomeno molto diffuso, se si considera che cinque anni fa se ne contavano addirittura 9.116, un terzo di tutti i rapporti di utenza. E pare che il lavoro da fare sia ancora molto, visto che «i provvedimenti di sgombero coattivo adottati sono solo quattro su oltre 7.900 istanze di regolarizzazione pervenute». Nel passare al setaccio la gestione, l'indagine fa emergere un'altra assurdità: il comune «utilizza un gran numero di strutture prese in affitto da terzi e, nel contempo, risulta proprietario di molti immobili inutilizzati».
Sul totale degli edifici comunali, oltre un terzo è ancora privo di destinazione e nelle conclusioni i magistrati sottolineano «il mancato utilizzo a fini pubblici di 5.400 immobili acquisiti gratuitamente». A complicare tutto, poi, c'è il «degrado» delle strutture. La Corte parla di scarsa attenzione alla manutenzione ordinaria, cui vanno circa 11 milioni di euro l'anno, lo 0,3 per cento dell'intero valore immobiliare. Di conseguenza, gli edifici hanno bisogno di una quantità sempre maggiore di soldi per interventi straordinari: per gli immobili a reddito, cioè quelli dai quali ci si aspetta di ottenere un introito, il comune destina a questa attività circa il 46 per cento delle risorse impegnate per la ristrutturazione dell'intero patrimonio immobiliare. Un vero salasso se si pensa che tra il 1999 e il 2003 sono stati accesi mutui per circa 309 milioni di euro per la manutenzione. Così l'indebitamento complessivo è cresciuto del 20 per cento. Tutto questo ha portato a una «crisi di liquidità di difficile soluzione». Il saldo di cassa della gestione corrente degli immobili nel periodo 1999-2003, cioè la differenza tra riscossioni e pagamenti, è negativo per oltre 45 milioni di euro. Una situazione dovuta essenzialmente al mancato incasso degli affitti, che tra il 2000 e il 2001 si sono azzerati, con una perdita di 21 milioni di euro l'anno. A questi mancati guadagni si aggiungono i costi per la fornitura di servizi non rimborsati, pari ad altri 2,7 milioni l'anno.
La questione morale nei Ds oggi significa quanto mi spetta e facci sognare.
p.s. mentre l'ex capo della procura milanese difendeva la profesionalità della Forleo su Repubblica, il fucilatore Violante chiede una mozione di censura su Clementina.....
Regione, 5 milioni di aumenti
Scritto da da la Repubblica Napoli
venerdì 27 luglio 2007
Sotto accusa, i costi della politica, alla Regione e al Comune di Napoli. Per garantire l´aumento di stipendio ai consiglieri della Regione Campania a partire dal primo gennaio 2006, per un totale di 2.600.000 euro, con il pagamento degli arretrati più altre spese di personale, il Consiglio dovrà attuare una variazione di bilancio per circa 5 milioni di euro. Nel bilancio di previsione 2007, infatti, questa voce è scoperta. È quanto si legge nella nota dell´ufficio bilancio e ragioneria della Regione, consegnata ieri ai consiglieri. Intanto scoppia una nuova polemica tra l´Unione industriali e il sindaco Iervolino. Dopo il presidente Gianni Lettieri, tocca a Teresa Naldi, presidente della sezione Turismo, bocciare la politica di palazzo San Giacomo.
La nota della Regione sottolinea che nell´approvazione del bilancio di previsione 2007 «non solo non sono state appostate tali somme (2.600.000 euro), ma si è proceduto anche alla riduzione del 7 per cento su tutti i capitoli del servizio status dei consiglieri, comprese missioni e indennità di fine mandato, spese per il funzionamento dei gruppi consiliari, fondo per l´assistenza alle attività istituzionali e fondo comunicazione gruppi consiliari». Mentre è stata assicurata, con determina numero 001 del 18 gennaio 2007, la corresponsione della nuova indennità di carica aggiornata. «Alla luce di quanto esposto - conclude la nota - è d´uopo rappresentare con urgenza che lo stanziamento attuale non garantisce né il pagamento degli arretrati gennaio-dicembre 2006 né la corresponsione per l´intero anno delle indennità e delle altre voci relative agli altri capitoli sopra enucleati».
Tra Iervolino e Naldi, un batti e ribatti dai toni acidi. Nel mirino le feste di piazza, «ci vogliono - afferma l´imprenditrice alberghiera - ma devono essere addebitate ai servizi sociali, non ai costi per il turismo». Le istituzioni, poi, «dovrebbero fare meglio», mettendo in campo «maggiori competenze, perché laddove non vi sono le capacità interne bisogna avvalersi di quelle esterne di livello imprenditoriale che, inoltre, sono gratuite e quindi non dispendiose». Il sindaco risponde per le rime: «Abbiamo molto rispetto per i turisti ma pure i cittadini napoletani hanno diritto a manifestazioni di alto livello, anche se non portano un utile a Teresa Naldi». Affondo finale: «La Naldi si legga i bilanci e ci lasci lavorare». L´albergatrice non si fa mettere nell´angolo. «Il sindaco dovrebbe rispondere a questa domanda: Napoli è una città a vocazione turistica o no? Non possiamo andare avanti con l´assistenzialismo. Mi rifiuto».
«I bilanci li ho letti» polemizza Teresa Naldi, «vorrei conoscere i dati positivi delle loro iniziative, i cosiddetti eventi. Non ho riscontri. Secondo noi hanno attratto solo i residenti». Turisti non ce n´è, registrano gli industriali. «Non un cliente dal Madre o dal Pan, i due musei d´arte moderna della città. Non vengono a soggiornare a Napoli, sbarcano dalle navi o con i bus da Roma e vanno via. Questo va addebitato all´insicurezza della città, dalla spazzatura alla criminalità». Gli imprenditori si preoccupano dei loro profitti, replica il sindaco. Naldi puntualizza: «Se non fosse per le mostre allestite da Spinosa a Capodimonte... Sono state davvero, e saranno, grandi attrattori turistici: da quelle solo ho guadagnato qualcosa. Se fossi un politico che progetta, stabilirei cosa fare nel 2009. Operatori del turismo non ci si improvvisa».
Naldi accusa: «Quello 0 virgola non so che nel bilancio comunale viene destinato al turismo, è ridicolo. L´assessore Valeria Valente si dà un gran da fare, Di Lello alla Regione e Martano alla Provincia stanno lavorando, ma non c´è progettazione. A che servono i tavoli di concertazione se i nostri suggerimenti cadono nel vuoto? Io non partecipo più. Personalmente, sono stanca di investire. Ho cominciato dal 1999, milioni di euro che non so se mai rivedrò tra Napoli, Capri, Sorrento, per potenziare e innovare le mie strutture alberghiere, aziende di eccellenza, ma cattedrali nel deserto». La svolta, secondo Teresa Naldi, potrebbe essere «una campagna di controinformazione su Napoli e la Campania. Con i giornali nazionali e internazionali, con tutte le risorse disponibili, per restituire un´immagine positiva alla città».
ARRIVEDERCI NAPOLI....
Napoli conta ancora qualcosa? E’ ancora in Italia? Il governo Prodi ne vuole fare una questione nazionale? O non cambia nulla? Le condizioni della città sono gravi ma dal vecchio governo nemico al nuovo governo amico non arriva un’attenzione specifica, intensa, profonda. La voce delle istituzioni locali è troppo debole? Che cosa significano tre visite del nuovo capo dello Stato? Che cosa ha significato il soggiorno del governo Prodi in Campania? Si sveglia qualcuno?
Dicono a Roma: “Il governo vuole aiutare la città, ma vogliamo anche sapere che cosa voglia la città”. Il sindaco sventaglia a tambur battente le priorità cittadine: Palazzo Fuga, il sottosuolo, la cittadella della polizia, i rifiuti, le zone franche. Smarrimento fra gli osservatori più attenti dei problemi napoletani. Sarebbero bastati sottosuolo e rifiuti, con piani concreti e non pie intenzioni, aggiungendoci traffico e parcheggi.
La Finanziaria non ha soldi, non li ha per Napoli. Il governo taglia la Lotteria di Agnano, se ne infischia del San Carlo allo stremo, manderà più polizia se occorre, ma tutto sommato se ne lava le mani. Ha anche emesso giudizi duri. D’Alema, 27 marzo 2006: “A Napoli c’è molto scontento per la gestione della città”. Prodi, 23 agosto 2006: “Occorre un interlocutore serio ed efficace per gestire un qualcosa di scioccante per Napoli”. Papale papale è la bocciatura degli amministratori e degli imprenditori cittadini. Risponde il sindaco: “Qui la classe dirigente ha dimostrato serietà ed efficacia”. Ma la stoccata di Prodi è dura. Non fa prevedere nulla di buono per Napoli.
E Napoli e il suo sindaco sono sotto un continuo tiro a bersaglio. La città, scesa al 78° posto tra i capoluoghi nazionali, è considerata un ghetto irrecuperabile. Sono gli stessi industriali napoletani a dirlo (13 giugno 2003): “E’ una cattedrale ridotta a baracca”. Arriva il fuoco di “Ballarò”, novembre 2004. Partono alla carica gli intellettuali e il sindaco replica: “Vengano a sporcarsi le mani”. Si ribellano i parroci delle periferie trascurate (30 novembre 2004) e il sindaco ribatte: “Pensate alle anime”. Partono i siluri di Marone e Paolucci (4 dicembre 2004) contro l’amministrazione e il sindaco esclama: “Beati loro che non hanno nulla da fare”. Agli intellettuali che firmano un documento a sostegno del San Carlo (4 dicembre 2004) risponde a muso duro: “Siete tutti segnati”. “Addio Napoli” è la copertina de “L’Espresso” il 14 settembre 2005. Il pamphlet di Giorgio Bocca su Napoli è del gennaio 2006. De Mita (4 gennaio) rincara la dose: “Iervolino non risolve i problemi di Napoli”. La guerra agli intellettuali si intensifica e il sindaco li definisce piripacchi “che si spartiscono gli editoriali sulla stampa locale” (1° giugno 2006). Suona la carica anche Santoro ad “Anno zero”, 23 settembre 2006, il sindaco minaccia querele e aggiunge: “Con il risarcimento della Rai costruiremo nuovi asili nido”.
Napoli è assediata, gode di scarsa considerazione, è esposta al ludibrio nazionale. Il sindaco si sente in trappola, deriso e vilipeso. Restano i problemi e la sua stizza. La regina è nuda. Nuda la dipinge Gabriele Di Matteo (28 novembre 2002), un mezzo busto a fianco di Bassolino, anch’egli a petto nudo, in un ritratto per una mostra a Castel Sant’Elmo. Eleonora Albanese, figlia dell’ingegnere assassinato durante una rapina in via Costantinopoli, le dedica una serie di vignette graffianti (28 giugno 2005) sul suo sito internet raffigurandola in tailleur blu e sciarpa tricolore.
Pure era cominciato tutto molto bene. Era de maggio 2001…
Caro Giusy delle 20:06.
Napoli è una città in stato comatoso.Non c'è una strada che non presenti buche, avvallamenti,dissesti anche pericolosi;non c'è un marciapiede che non sia rotto, scassato e perciò intransitabile dai pedoni; il traffico blocca la circolazione dalle 7 del mattino alle 2 di notte; i rifiuti vengono raccolti al centro e depositati in periferia, dove la gente disperata gli dà fuoco;l'acqua della fontana sembra prelevata direttamente da una piscina tanto è ricca di cloro; non la beve nessuno e al massimo ci lavano i panni;anche per fare il caffè e cuocere la pasta bisogna usare l'acqua minerale;la sporcizia domina sovrana per le strade: una volta si provvedeva almeno a buttare un pò d'acqua per rinfrescare l'aria e togliere un pò di polvere;non ti puoi fermare a discutere con nessuno perchè rischi una coltellata o una capata in bocca;nei bus non puoi salire perchè ti borseggiano, ti palpano,ti fanno offerte oscene e se parli sono cazzotti e coltellate; una ragazza non può uscire per la strada senza essere insultata e rischiare di essere violentata;alla stazione ragazzini di dieci anni si offrono per ogni tipo di servizio e nessuno,nemmeno i poliziotti dicono niente;potremmo continuare a lungo ma a che servirebbe? Gli intellettuali parlano del sesso degli angeli,come sempre, di politica e antipolitica. Nel frattempo a fare poltica c'è una banda di inetti e malfattori.Anche non intervenire quando si commette un reato ti fa complice.Le motivazioni non sono nascoste:tutti fanno affari alla luce del sole ma nessuno si meraviglia più di niente, nemmeno del fatto di assegnare posti e ruoli a mogli, figli e familiari. Una volta per partecipare ad un concorso nella pubblica amministrazione non dovevi avere rapporti di parentela con amministratori e dirigenti.Oggi vale la regola contraria: non vinci nemmeno una cattedra universitaria se non hai parenti che contano dentro l'Università.Cosa volete che dicano questi signori che fanno gli intellettuali schifiltosi e saccenti ma sono figli d'arte,magari per via di suocero,o stanno già aprendo la strada a figli, amanti e concubine.Nessuno che si ribelli, anzi continuano a leggere giornali che meglio sarebbero usati se ci si pulisse il culo!
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